mercoledì 25 febbraio 2015

Un ragazzo qualsiasi


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Una delle cose che mi fanno escludere a priori l'acquisto di un libro - ma stiamo larghi, pure l'occhiata all'estratto gratuito - è questa frase:

Tizio è un ragazzo qualsiasi

Buona parte della letteratura in vendita - e sto parlando di generi che spaziano dallo young adult al paranormal romance, passando per cinquanta sfumature di fentasi idiota - ha una sinossi che inizia con quelle parole.
Ecco, no.
E vi spiego anche perché.
Perché siamo tutti diversi e ciascuno di noi - senza eccezione - ha in sé qualcosa di speciale. Qualcosa che lo distingue e lo rende unico. Magari è una cosa piccola, come un particolare bernoccolo per, che ne so, fare decorazioni da tavola, non è che serva essere un genio della matematica o un artista eccezionale.
Ma ce l'hai solo tu. Siamo oltre sei miliardi, su questa terra... e non c'è un altro uguale a te.
Se definisco una persona "qualsiasi", è come se dicessi che è trasparente. Si confonde nella massa. Non ha niente, ma proprio niente di speciale. Triste, vero?
Adesso applichiamo la cosa a un personaggio.
I personaggi, per quanto ben delineati siano, devono - devono proprio - avere qualcosa di unico, direi di paradigmatico.
Non leggiamo storie per sentirci raccontare del macellaio sotto casa e della sua vita noiosa fra negozio, casa e serate di fronte ai telequiz. Leggiamo storie che parlano di esperienze fuori dal comune che capitano a persone che hanno in sé qualcosa di diverso, che magari neanche loro all'inizio sanno di avere, per cui le esperienze finiscono per cambiarle. 
Magari in peggio, ma le cambiano.
Se lo scrittore - o la scrittrice - mi dice, già dalla sinossi, che il protagonista è qualsiasi, mi sta dicendo che è uguale a mille altri. Che non ha nulla che lo distingua, neanche l'abilità di fare centrotavola.
Penso che sia uno dei peggiori modi di presentare un personaggio.
Non è ancora entrato in scena, di fatto il lettore non ha ancora aperto il libro, e già è stato bollato.
Ma che razza di credibilità posso attribuirgli?
A me non interessano le vicende di un tizio, o di una tizia, uguale a mille altri! A me interessano le vicende di una persona che ha un carattere ben definito, delle abilità, dei gusti. Che magari cucina malissimo ma è un genio a fare i centrotavola (sì, ora la smetto, coi centrotavola).
Quindi, anche solo per questo, senza andare a considerare l'errore di utilizzare aggettivi generici e che non dicono nulla, lo scrittore ha toppato. Dimmi che tizio è un impiegato insoddisfatto, dimmi che fa il gelataio e sogna di sbarcare a Hollywood, dimmi che è un buttafuori con la passione dei gatti, o uno studente liceale che scrive di nascosto per non essere preso in giro.
Abbi pietà di 'sto poveraccio, evita di dirmi che è qualsiasi. Se tu per primo, autore, lo tratti così, come pensi che lo tratteranno i lettori?
Che poi, mettiamoci pure un corollario.
Il povero personaggio, molto spesso, in realtà qualsiasi non lo è, ma nel senso peggiore. 
Perché, ad esempio, è un ragazzo qualsiasi che vive solo perché gli è morta tutta la famiglia fino alla settima generazione in un ciclone di sfiga tale che uno, così per pietà, gli consiglia immantinente un viaggetto a Lourdes, mentre si dà una discreta toccatina o caccia fuori il cornetto portafortuna. O la nostra ragazza qualsiasi la famiglia ce l'ha, ma niente niente sarebbe meglio che non l'avesse, perché la trattano in un  modo che, a paragone, Cenerentola era una viziata del cavolo.
Questo perché l'autore, o l'autrice non ha né gli strumenti né la preparazione per calare il suo personaggio in un ambiente familiare che sia anche un minimo dotato di senso.
E, visto che in fondo quel che gli interessa è solo la storia d'aMMore, non fa né uno, né due ed elimina il problema alla radice: stermina la famiglia del protagonista (o la rende così spregevole che il poveraccio ci passa, e con giusta ragione, meno tempo possibile) e si toglie dai piedi una complicazione.
Tornando al disgraziato aggettivo "qualsiasi", mi sono chiesta: ma perché uno scrittore dovrebbe svalutare in modo così maldestro la sua propria creazione? E, soprattutto, perché lo fanno così tanti scrittori?
La risposta non mi è piaciuta.
Al di là della crassa incompetenza - e di scrittori incompetenti ce ne sono a iosa - il fatto è che si cerca di spingere il pubblico - quel pubblico fatto da adolescenti in piena crisi ormonale, diciassettenni tutte ciccia e brufoli che sognano il principe azzurro e così via - a identificarsi con il personaggio stesso.
Si dà un/a protagonista qualsiasi a gente che si sente qualsiasi.
E ci siamo passati tutti, più o meno, nel sentirsi qualsiasi. Voglio dire, ho ritrovato i diari del liceo svuotando la stanza per creare la cameretta di Davide e, sì, quella fase è toccata pure a me.
Poi finisce, eh. Si sopravvive e si cresce.
Volete un esempio? Ve ne faccio due - che poi in realtà è uno solo - prendete quell'idiota della protagonista di Tuailait e prendete la sua omologa delle sfumature.
Sono qualsiasi nel senso più bieco del termine. Insipide, uguali a mille altre.
Le due autrici, bontà loro, quando devono tirare fuori una ragione plausibile per la quale il fico di turno le insegue manco fossero gelati nel deserto, se ne escono rispettivamente con: "ha un odore che mi attira" e "si morde il labbro".
Hey, laggiù, io avrei detto plausibile!
Queste due sono al limite dell'impedito sociale, neanche troppo simpatiche, non dimostrano né carattere né intelligenza, non hanno una conversazione interessante, non hanno opinioni proprie, non sono neanche delle bellezze stratosferiche da giustificare - almeno - un'attrazione fisica... ma insomma, in quale angolo del mondo reale due così attirerebbero l'attenzione non dico del maschio alfa, ma di un qualsiasi maschio in generale? In nessuno, siamo sinceri.
Solo che non siamo nel mondo reale. Siamo nel "tanto è fantasia". E così, legioni di adolescenti (e donne) che si sentono qualsiasi sognano e sbavano su questa favoletta sentendosi consolate, quasi prendendosi una rivincita sulla bella della classe o sulla vicina di casa magra e truccatissima che pare una delle desperate housewives.
Sì, anche questo è molto triste.
Lasciate perdere le storie di gente qualsiasi. Sentitevi speciali. Sentitevi unici. 
 Lo siete.

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sabato 21 febbraio 2015

All Along The Watchtower

Sapete?
Io le odio, le etichette. Non quelle con i prezzi, eh, quelle che oggigiorno la maggior parte degli scrittorucoli, specie nell'italico panorama, appiccicano ai propri personaggi.
Mi fanno incazzare a morte.
Sono stufa. Sono stanca. Mi sono proprio rotta le palle.
Non ne posso più di elfe "crudeli e procaci", giornaliste spaziali "inguainate in tutine", fantasy "a tinte fosche" e via di questo passo.
Caro scrittorucolo dei miei stivali, che infarcisci di etichette il tuo scritto, lasciatelo dire: il tuo capolavoro non vale la carta sul quale è stampato, non vale i byte dell'ebook e no, non me ne frega niente se ti ha pubblicato una grande CE, questo poi non ti garantisce certo un bollino di qualità. Anzi.
Il tuo libro non vale il mio tempo.
Perché come scribacchina sono nessuno, come lettrice ho gusto, intelligenza e un palato raffinato.
In altre parole, una come me, fra il tuo pubblico, te la sogni.
Vuoi sapere perchè?
Ma te lo dico subito e in termini non equivocabili.
Se la prima informazione che vuoi dare al lettore è che la tua protagonista ha le tette grosse o che se ne va in giro strizzata in un indumento abbastanza stretto perché le si possano contare i peli, vuol dire che non hai proprio capito niente.
Queste sono le importantissime informazioni che, per prime, vuoi passare ai tuoi lettori? Lo stato delle ghiandole mammarie e il gusto (volgare) nel vestire?
Complimenti, sono davvero di importanza capitale.
Non so, caro scrittorucolo, se ti rendi conto di quanto sia umiliante.
Ma lo dico per te, eh. Perché, se scrivi in questo modo, è segno che pensi in questo modo. Posso permettermi? Forse, ma dico forse, è il caso che tu riveda le tue priorità e il concetto di "importante".
E poi, piccolo effetto collaterale, sarebbe umiliante per il pubblico. Non per tutto, eh, per questo ho messo il condizionale. Per quei pochi non lobotomizzati ancora in giro.
Non so se ti rendi conto di quello stai facendo. Spero per te di no, perché è una roba abbastanza disgustosa: stai rigurgitando nel loro gargarozzo del cibo predigerito.
Quando lo fanno, per esempio, i pinguini con i loro pulcini è pure carino. Ma lo scrittore con il lettore? Not so much.
Tu, a questo ipotetico lettore, non  permetti di farsi un'opinione sua: prendi il primo stereotipo che capita - o meglio, quel che va di moda al momento - gli appiccichi quattro caratteristiche (semplici, per carità) e poi dici che è così.
E magari non capisci neanche per quale ragione qualche lettore più spaccaballe della media - oh sì, eccomi qui - dovrebbe lamentarsi.
Morale della favola, ci ritroviamo con donne crudeli che però di crudele non fanno nulla, con personaggi intelligenti che però non si dimostrano mai tali.... cosa chiedi, in fondo, al lettore? Neanche uno sforzo piccino picciò. Deve solo mettersi comodo, smettere di pensare e limitarsi, invece, a credere a quel che gli dici.
Sai che c'è? No, grazie, comunque no grazie, per quanto mi riguarda risparmiati pure la fatica.
Se mi accorgo, e me ne accorgo al volo, che il tuo libro è di questo tipo, io lo butto. Non lo compro. Non lo leggo. Non me lo proporre nemmeno, via Fb o nei milioni di modi messi a disposizione dai social network. Oppure provaci, se hai coraggio, ma non lamentarti se ti prendo a male parole.
Perché?
Perché mi sento trattata come una cretina e, caro scrittorucolo che ti credi tanto geniale, come una cretina vai a trattarci qualcun altra.
Io voglio capire da me com'è un certo personaggio. Voglio capirlo da come parla, si comporta, pensa.  Queste sono le cose che devi dirmi. Non se porta la sesta di reggiseno o John Holmes a confronto è afflitto da invidia del pene.
Quindi muovi il culo e fai il tuo dovere, cioé scrivi e scrivi come dio comanda.
Le tue caratteristiche preconfezionate stile elenco della spesa... puoi ficcartele dove non batte il sole.
Mi dispiace per te: non me ne frega niente se la protagonista ha le tette grosse, o il protagonista ha grosso dell'altro (che qua siamo in par condicio). Evita di sbrodolare per pagine e pagine su pettorali scolpiti, cosce snelle e turgidi seni, è pure squallido.
Fra l'altro, non so se te ne sei accorto, finisce che i personaggi sono tutti uguali. Si chiama omologazione e no, non è un complimento.
Di protagonista bellobellobello in modo assurdo ce n'è soltanto uno!
Non mi frega un accidente se il lui di turno è biondo o bruno, alto o basso, né mi interessa di che colore ha gli occhi. E, per favore, evita anche una descrizione minuziosa di come lei è vestita, se non è funzionale alla storia. Invece che sprecare tempo a immaginarne il guardaroba, perché non ti impegni a renderla il più possibile sfaccettata e tridimensionale?
Se voglio vedere dei vestiti, mi sfoglio una rivista di moda (era per dire, non lo faccio neanche se sto morendo di noia in coda dal dottore). 
Da un libro, voglio altro.
Altro che, almeno in Italia, non ottengo.
Perché il triste rovescio della medaglia - ci siamo resi conto in una interessante discussione con i miei compagni del blocco C della blogosfera - è che, a stare a guardare dati come popolarità e vendite, siamo come Robert Neville in Io sono leggenda (il libro, maledizione, non il film!): una razza in via d'estinzione in mezzo a mutanti caratterizzati da analfabetismo funzionale e crassa ignoranza. 
Quelli che vogliono usare cervello e fantasia soccombono a una schiacciante maggioranza, composta da coloro i quali "buona la pappa predigerita e rigurgitata al momento"
Eh, guarda, una delizia...
Gente che vuole la protagonista imbranata ma in fondo in fondo figa, oppure crudele e dominatrice ma sotto sotto con un cuore di panna, e una controparte maschile che sia, oltre che di splendido aspetto, anche uomo che non deve chiedere mai, ma accudente, ma bisognoso di essere salvato e poi ricco. Ricco è irrinunciabile.
Ma siete mai andati a leggere le recensioni su Amazon di classici della letteratura fantastica?
Io l'ho fatto, ma una volta per non ripetere mai più. Gente che appioppa una stellina a Dracula perché non c'è la storia d'amore con Mina! Gente che recensisce negativamente dei capolavori dicendo che mancano le descrizioni fisiche o che sono noiosi perché le frasi sono troppo lunghe.
Cioé, fatemi capire, se non sapete per filo e per segno che aspetto ha un personaggio non siete in grado di immaginarvelo? Scusate, da quale pianeta siete atterrati?
Questo stato di cose mi mette i brividi e ha conseguenze disastrose.
Ad esempio, un'omologazione vergognosa della produzione letteraria. 
Libri tutti uguali, mal scritti, mal pensati, stupidi e banali, ma che alle CE vanno bene, perché il libro ormai è solo un prodotto, viene fuori da una specie di catena di montaggio e deve fare solo una cosa: deve - e sottolineo deve - rispondere a determinati standard.
Non importa che sia bello. Non importa che sia originale, né ben scritto. Anzi, il fatto che sia originale e ben scritto, semmai, è uno svantaggio.
Perché deve vendere. E per vendere deve dare al pubblico - un pubblico ormai disabituato alla buona scrittura, nutrito di schifezze, che non è neanche più in grado di seguire una trama appena un pelo più complessa della favoletta di Cenerentola (che ci narrano e rinarrano in tutte le salse) - quello che il pubblico chiede.
Che è questa roba qui. Che sono le etichette sbattute in quarta di copertina, così capisci subito con cosa hai a che fare, le trame tutte uguali, i personaggi tutti uguali, l'attenzione a dettagli insignificanti - come l'aspetto fisico - perché così non deve neanche fare lo sforzo di immaginare (che, fra l'altro, è la parte divertente del leggere, ma questi poveri idioti non lo sanno), una sintassi che definire scolastica è un complimento, perché il lettore non deve smarrirsi fra le proposizioni del periodo, quindi limitiamoci a soggetto - verbo - complemento, con qualche aggettivo, ma generico, non sia mai che il poverino debba metter mano a quella cosa, com'è che si chiama?, ah, sì vocabolario.
E noi lettori forti? Noi da oltre cento libri l'anno, quelli con il gusto della lettura, quelli che la fantasia la usano eccome?
Noi ci attacchiamo e tiriamo, per dirla in modo popolare. Non siamo abbastanza importanti, non giustifichiamo l'investimento necessario a portare in Italia buona letteratura fantastica.
Meglio coltivarsi le legioni di lobotomizzati e spacciare loro cartacei a venti euro ed ebook a tredici. Che magari ne comprano uno all'anno, ma sono tanti.
Davvero tanti.
Sapete qual è l'altra, disastrosa conseguenza? Che il serpente che si morde la coda, perché buona parte di questi si metterà a scrivere
E, proprio come siamo quel che mangiamo, loro scriveranno quello che leggono, cioè stupidaggini e andrà già di lusso se useranno un italiano corretto.
Privi di una cultura di genere scriveranno, per esempio, convinti che fantasy = signore degli anelli, senza avere la minima consapevolezza che forse, ma dico forse, l'idea del predestinato e del signore oscuro non è proprio questa novità sconvolgente e che i mondi simil-medioevali hanno anche un po' scassato i cosiddetti.
O che i vampiri siano tutti belli, tormentati e alla ricerca dell'aMMore, oppure che una storia d'amore non abbia senso se priva di massicce dosi di sesso il più possibile presunto sadomaso (ma in realtà all'acqua di rose).
E si autopubblicheranno - ormai è facile - e spammeranno ovunque pretendendo di essere letti e infestando gruppi Fb, aNobii e Twitter, oppure si faranno fregare da una CE a pagamento, perché non hanno né l'intelligenza né il senso critico per capire che l'aver scritto qualcosa non lo rende automaticamente degno di pubblicazione - convinti pure, nella loro presunzione infinita, che tanto tutti pagano, per pubblicare.
Qualche Cenerentola, poi, approderà a una grande CE che la mungerà ben bene, spacciandola come caso letterario ad altri lobotomizzati (i quali, a loro volta, si faranno venire velleità letterarie), per poi gettarla nel dimenticatoio non appena avrà esaurito la sua utilità (squisitamente economica, se ancora ce n'è una, in questi tempi di crisi nera).
Se proprio volete sapere come la penso, gli starà bene, se la saranno cercata. 
Il problema è che sono tanti. Sono troppi.
Come direbbe qualcuno dei miei compagni del blocco C, è una fottuta invasione.
E noi lettori forti siamo sempre meno. Siamo sempre più stanchi, sempre più assediati. 
E sempre più scazzati.
Stufi di entrare in una libreria e trovare cumuli di stupidaggini che non toccheremmo neanche con un bastone, stufi di sentirsi proporre, dall'amico di turno, l'ennesima schifezza con un "ho letto un libro bellissimo, guarda, lo devi leggere" e per poi dover spiegare che quel libro, che lui ha tanto apprezzato, è in realtà un'immonda cagata e che, se solo si prendesse la briga di guardare al di là delle nostre sponde, ci sono libri davvero meravigliosi, che però ti devi leggere in lingua originale perché tanto qui non li tradurrà nessuno.
Quando oltre che lettori si è scrittori, è pure peggio.
Ti fai un culo come una capanna e vedi il frutto delle tue fatiche alla pari con le peggio schifezze. Ti confronti con un pubblico che non è in grado di riconoscere la buona scrittura neanche se questa si mettesse lì a sputargli in faccia. Ti impegni, ma ti dicono che il tuo libro è troppo complicato. Che non c'è una storia d'amore. Che non ci sono le descrizioni fisiche. Che il finale aperto non va bene, ci vuole il lieto fine.
E, nei momenti più neri, ti chiedi chi diavolo te lo faccia fare.
È dura essere assediati. Ti manca l'aria.


martedì 17 febbraio 2015

L'abbandono delle serie TV - perché mi rifiuto di guardare il Dottore.

Durante il periodo di pausa del blog, ho avuto la costanza - o forse lo spirito di sacrificio, non lo so - di guardare anche l'ottava serie del Dottore.
Alla fine della quale ho preso la solenne decisione che no, io non ne voglio più sapere. E infatti lo special di Natale non l'ho guardato.
Farò finta che il Dottore sia finito con Russell Davies.
Che l'Undicesimo non mi fosse granché gradito si sapeva. Per questo avevo grandissime speranze sul Dodicesimo, specie dopo aver visto Peter Capaldi come Richelieu.
Speranze deluse? Sì e no.
Non da Capaldi, che è un ottimo attore, mangia la pappa in testa a Matt Smith e ci riporta a livelli degni.
Il problema, a mio modesto avviso, è, come sempre, la scrittura.
Non amo Moffat, non l'ho mai amato da quando ha preso in mano la main storyline. Bravo con gli episodi singoli, pessimo nel resto.
Questa ottava serie, purtroppo, è forse - ma dico forse - peggio della settima.
Sconclusionata, piena di buchi di trama, colpi di scena messi lì per fare sensazione e svegliare lo spettatore assopito, con una Clara che non sembra più neanche se stessa, trasformata in una petulante palla al piede, con il Dottore che si è rigenerato in un vecchio perché è innamorato di lei (ma da quando?) e quindi non può permetterselo...
Presi come singoli, alcuni episodi raggiungono livelli addirittura imbarazzanti.
Il primo, Deep Breath, cerca di puntare alto schiaffando un T-Rex nella Londra vittoriana (T-Rex che sputa il TARDIS) e rimettendo in scena gli automi di The girl in the fireplace, senza un briciolo del fascino originale. Tanto per non sbagliare, ci sono anche Madame Vastra, Jenny e Strax che, di tutto cuore, hanno anche un po' scassato l'anima.
Nella strategia del "facciamo sensazione così la gente guarda", il secondo episodio Into the Dalek riprende il trucchetto già visto in Salto nel buio: miniaturizziamo il dottore e spariamolo, sempre con Clara a rimorchio più un tot di soldati sacrificabili, dentro un dalek difettoso perché capace di provare sentimenti.
Dovrebbe essere interessante? Anche no.
Ma le cose possono sempre peggiorare e, a dispetto dell'ottimo livello che di solito è associato al nome di Mark Gatiss, proprio lui firma il pessimo Robot of Sherwood, in cui la guest star dell'episodio, Tom Riley, il Leonardo di Da Vinci's Demons, interpreta Robin Hood facendo il verso a Errol Flynn, con tanto di risata stentorea. (Scusate, se qualcuno deve citare Errol Flynn, tutta la vita Cary Elwes e Robin Hood in uomo in calzamaglia!) Come se non bastasse, Clara si comporta da bimbaminkia fangherleggiante e sarebbe da strozzare non appena apre bocca e il Dottore si impegna in un duello a chi è più testosteronico proprio con Robin (dovrebbe far ridere, invece è penoso). Mettiamoci anche un cattivo "perché sì" e siamo a posto.
In Listen, sembra che il Dottore si cerchi apposta qualcosa su cui indagare, perché altrimenti si annoia. Tipo "ma quando parliamo da soli, siamo veramente da soli?". Sul serio, fa questa domanda a Clara. Che una sana di mente dovrebbe solo che rispondergli: "non hai nulla di meglio cui pensare?"
Nel disperato tentativo di invertire la rotta, Moffat cala il carico di briscola: in Time Heist il Dottore deve rapinare una banca! Peccato la motivazione assolutamente cretina del misterioso soggetto che costringe il nostro Timelord preferito a infrangere la legge. I paradossi temporali si sprecano e non fanno altro che ingarbugliare le cose.
In realtà, il peggio deve ancora arrivare. Intanto, passa The Caretaker, in cui il Dottore lavora nella scuola in cui insegnano Clara e l'aMMore suo Danny (sì, in questa stagione Clara si trova un fidanzato) e sventa la minaccia di una specie di super robot da guerra alieno impazzito. Senza infamia, senza lode.
E il peggio, puntuale, arriva. Kill the Moon è, in una parola, stupido. Sembra preso pari pari da un racconto di fantascienza anni '60, con tanto di ragni lunari orridi e, cosa che mi ha fatto davvero girare le scatole, la nostra Luna che è, in realtà, un gigantesco uovo che sta per schiudersi. Tutto si gioca fra "faccio detonare la Luna, uccido il cucciolo e salvo la Terra" o "faccio vivere il cucciolo e tanti saluti al genere umano" con tanto di referendum planetario in diretta Terra-Luna (manco nei cartoni più scemi o nei più biechi film catastrofici di serie Z) e un finale che è un "statevene buoni, me la spiccio da solo, firmato: l'universo".
Spinto moltissimo dalla pubblicità, Mummy on The Orient Express cerca di riguadagnare terreno con un Orient Express spaziale che sembra preso da Matsumoto e ci ficca pure una mummia assassina per buona misura. Direi che questo è l'unico episodio decente di tutta la serie e no, non perché c'è la mummia e si sa che sono monomaniaca per l'antico Egitto, ma perché, effettivamente, ha un bel ritmo e una bella tensione.
Flatline parte da un presupposto che mi ha irritata: il TARDIS si è rimpicciolito! E il dottore c'è intrappolato dentro! Ci sono i soliti alieni cattivi questa volta bidimensionali che trasformano la gente in graffiti per studiare come diventare in 3D e conquistare il mondo... insomma, una noia.
L'episodio successivo In the forest of the night è forse il più brutto. Se la batte bene con Kill the Moon e quello di Gatiss (e, comunque, non che gli altri siano tanto meglio). Abbiamo una Londra ricoperta dalla foresta, che (si scopre alla fine) è cresciuta solo per proteggere gli umani dalle radiazioni. E i governi che vorrebbero disboscare tutto! Kattyvi Kattyvi governi! Meno male che ci pensa il dottore!
Ma siamo arrivati (stremati e frustrati e scusate la rima) ai botti finali: episodio in due parti. La prima Dark Water mette in scena la morte - purtroppo per lui cretina - di Danny. Quale modo migliore per agganciare i fan dell'inaspettato schiattamento di un beniamino? Lacrime e stridor di denti (e voragini di trama, visto che in Listen ci era stato fatto conoscere un lontano pronipote della coppia Danny-Clara) ma: Danny è vivo? È morto? È così-così? Perché lo ritroviamo catapultato in una specie di ufficio? E soprattutto, si deciderà Moffat a dirci chi è quella tizia che si fa chiamare Missy e che compare con fastidiosa regolarità a chiunque sia schiattato nel corso della serie? La risposta è sì, si deciderà. E, fidatevi, non vorrete veramente saperlo. Giusto perché durante tutta la serie non si è celato abbastanza il penoso vuoto di idee con l'omaggio (scopiazzatura) degli episodi iconici, ecco qua: alla fine dell'episodio non solo i cybermen sono, serviti, ma Missy si rivela essere la rigenerazione del Maestro. Dice ma era morto. Checcefrega, Moffat può.
Tuttavia il gran finale di serie epico (nelle intenzioni), Death in Paradise riserva ben altro, compreso il resuscitare versione cyberman il Brigadiere Letherbridge-Stewart.
Danny è eroico che più guardi signora non si può, Missy muore ma forse anche no, Clara e il Dottore si dicono addio.
E Gallifrey? No, perché sul finire del Cinquantenario ci era stato dato ad intendere che non era mica esploso! E in quell'orrido special natalizio 2013 "qualcuno" gliel'aveva fornito, al Dottore, un pack da 12 rigenerazioni in pronta consegna che manco i corrieri Amazon. Bene, di Gallifrey ci si ricorda solo ora. Missy fornisce le coordinate al Dottore, che si precipita e... ciccia. Così torna da Clara, ma ecco qui la traggedia perché il Dottore pensa che Danny sia tornato in vita e invece nisba, Clara pensa che lui abbia trovato Gallifrey e invece nisba e i due si salutano per salvaguardare la (supposta) felicità altrui.
Una coppia di dementi.
Arrivata alla fine, con un giramento a vortice di cosiddetti, ho realizzato di essere un tantino stufa di concedere attenzione e tempo solo perché una volta la serie mi piaceva. Sono tre stagioni che non è più così. Perciò mi dispiace ma basta.
Se e quando cambierà lo sceneggiatore principale, ci riproverò.
Ma per quanto mi riguarda, per adesso ho chiuso.

lunedì 16 febbraio 2015

L'ultimo samurai: il fascino antico del Giappone.

Sì, lo so che è un film vecchio di dodici anni. Ma che posso dire? L'ho visto per la prima volta solo ieri sera.
Il fatto è che sono un po' allergica a Tom Cruise. E, sì, ce l'avevo pure io il poster di Top Gun, ma dai, sul serio... ancora non vi ha stufato con tutti quei ruoli da bravo ragazzo-eroeveroammeregano? 
A me sì!
Mettiamoci pure che ho una discreta passione per il Giappone, il che porta dritto dritto al "di guardare un'ennesima rivisitazione in salsa occidentale dell'epica del samurai non ce l'ho neanche per l'anima".
Sarò snob, ma, se devo guardare o leggere qualcosa riguardante il Giappone, lo preferisco girato o scritto da un giapponese. 
In altre parole, meno Shogun e più Zatoichi, meno Clavell e più Yoshikawa.
Però ieri ero stravaccata sul divano, reduce da una lunga incursione all'Ikea (stiamo allestendo la cameretta!), su Iris passavano quello... e io ero talmente stracca - non stanca, proprio stracca - che non avevo nemmeno voglia di alzare il dito per pigiare i tasti sul telecomando.
Così l'ho visto.
La storia, a livello di trama, è cliché, ma così cliché che "cliché" non rende nemmeno l'idea. Il solito americano ex-soldato, ma buono con annessa sindrome post traumatica da stress per aver commesso - ma mica per colpa sua, eh!, agli ordini del solito superiore bastardo (che poi sarebbe l'attore che fa il cattivo di Ghost. Ma gli fanno fare solo parti da stronzo, a questo?) - atrocità a spese di un villaggio indiano inerme e indifeso, con massacro di bambini e quindi per questo alcoolizzato, si ritrova a dover addestrare le truppe del neonato esercito imperiale giapponese.
Siamo in piena era Meiji e il giovane imperatore ha un problema: il suo vecchio maestro - Katsumoto - non ha nessuna intenzione di piegarsi alla rivoluzione industriale che viene imposta al paese a discapito di tradizioni vecchie di mille anni, soprattutto perché chi propugna questa modernizzazione lo fa a suo personale vantaggio (vedi il viscido Omura).
In sintesi, il nostro americano traumatizzato inizia il suo lavoro agli ordini - guarda che caso! - del solito superiore stronzo di cui sopra e viene costretto, nonostante abbia detto chiaro e tondo che le truppe ancora non sono pronte, ad attaccare i ribelli. Cosa succede? Che viene fatto prigioniero - unico superstite - proprio da Katsumoto e portato nel suo villaggio fra le montagne dove - dopo aver smesso con la bottiglia - si convertirà ai valori dei samurai diventando più samurai dei samurai e si innamorerà (ovviamente) della sorella di Kasumoto.
Non è che proprio sia una novità assoluta: erano gli anni Ottanta e Shogun raccontava quasi le stesse cose (sì, lo so che uno è ambientato nel Seicento e l'altro alla fine dell'Ottocento, ma sempre di gaijn convertiti ai modi di vita e di pensare del Giappone si tratta).
Tom Cruise è il solito Tom Cruise. Noioso da non dirsi e con il fascino di una cocuzza (ha pure il capello unto). Svetta su di lui Ken Watanabe, che interpreta Katsumoto.
In pratica, se proprio devo dirlo, quello che fa da grande protagonista non è il nostro eroico Tom e neanche la sua controparte giapponese. Non è nemmeno l'epica del sacrificio di sé, la vittoria nonostante la morte per superiorità morale sugli avversari (le truppe che disobbediscono ad Omura e si inchinano al morente Katsumoto, oppure il giovane imperatore che, alle rimostranze di Omura gli suggerisce, nell'unico momento in cui sembra tirare fuori gli attributi, che "io sono il boss e ti dico che è così, se non ti sta bene, questa è la katana, sai cosa farci").
Il vero protagonista, quello che colpisce lo spettatore, è il fascino antico del Giappone, di questa terra in cui tradizioni millenarie sono sopravvissute intatte fino all'epoca moderna.
Sono le armature dei samurai e le katane luccicanti, tramandate di generazione in generazione, la carica dei ribelli che appaiono come fantasmi nel bosco nebbioso, gli scorci di natura incontaminata, l'acqua delle risaie che riflette il cielo, le case con il tetto di paglia e gli shoji in carta di riso, il tempio buddista tirato a lucido, la quiete del cimitero in cui si va a meditare sugli antenati, la particolare visione giapponese della morte, del tutto opposta a quella negazionista degli occidentali, per cui la vita è bellissima ed effimera, quindi godiamo di ogni respiro sapendo che, proprio come i boccioli del ciliegio, stiamo tutti morendo.
Vale la pena guardarlo?
Una volta anche sì. Non è indispensabile. Non è una pietra miliare: è tanto piacevole agli occhi quanto poco impegnativo per la mente.
Però ecco, dopo questo posso stare un altro paio d'anni senza Tom Cruise!

lunedì 9 febbraio 2015

Broadchurch 2 - la vendetta

Un anno e mezzo fa ho scoperto Broadchurch quando ormai la serie era finita, ragion per cui mi sono potuta sparare tutti gli episodi di seguito.
Ne ero rimasta incantata (e ne avevo parlato qui).
Non si erano praticamente ancora spente le telecamere che avevano iniziato a circolare notizie in merito a una seconda stagione (anche perché, a chiusura dell'ultimo episodio, c'era un assai esplicito "Broadchurch will return").
Nonostante questo, si sapeva poco e niente e la cosa sembrava estremamente improbabile, specie dopo che David Tennant aveva categoricamente smentito di essere stato contattato.
Voglio dire, Broadchurch senza il DI Hardy?
In realtà, il dubbio amletico che era venuto a me era il seguente: un crimine come quello messo in scena nella prima serie, che accade in una piccola cittadina di provincia, certo fa scalpore. Ma quante probabilità ci sono - realisticamente - che succeda qualcosa di altrettanto "pesante" da giustificare una seconda serie? Non vorremmo mica cadere in una ambientazione stile Cabot Cove, paesino nel Maine con un tasso di criminalità che Detroit a confronto è il villaggio dei puffi!
Insomma, avevo una bella quantità di riserve e, in fondo, che poi l'avrebbero davvero girata, questa seconda serie, non ci credevo poi tanto.
E invece, quatti quatti, l'hanno fatto. E, da quando è stata data la conferma, mi sono messa ad attendere come un cagnolino fedele, lingua a penzoloni e coda che spazza frenetica il pavimento.
Mi sto gustando un episodio a settimana e, anche se non ho intenzione di farne una disamina puntuale, un paio di cosette mi va di dirle.
Ora, la prima cosa che uno si chiede è: ma di cosa parla, Broadchurch?
I temi, questa volta, sono due.
Il primo, va da sé, è strettamente legato a Danny: erché, inaspettatamente, il reo confesso Joe Miller si è dichiarato non colpevole e quindi, secondo la giustizia inglese, ha diritto a un processo.
Questo riporta sulla scena tutti i protagonisti, soprattutto, quella che - oltre Danny - è l'altra vittima sacrificale della situazione: Ellie, la moglie di Joe. Dopo la scoperta del colpevole, la cittadina le si è rivoltata contro: lei era il detective e non aveva capito che dormiva accanto all'assassino? Nessuno crede alla sua completa innocenza, tutti pensano che non poteva non sapere. Così è finita a fare l'agente di polizia stradale nel Devonshire, portandosi dietro il figlio piccolo. Il figlio grande, Tom, invece non vuole avere nulla a che fare con lei ed è andato a vivere con la zia materna (la mamma con problema di gioco d'azzardo dell'aspirante giornalista Ollie). Sul banco dei testimoni e sulle sedie degli spettatori sfilano quindi tutti i vecchi personaggi, alcuni alle prese con nuovi segreti - tipo Mark Latimer che, di nascosto da tutti, incontra Tom Miller per giocare con lui come avrebbe fatto con suo figlio.
E poi c'è il secondo, che invece ha a che fare con Hardy. Perché, se ci si pensa bene, c'è un gancio piuttosto evidente che è stato inserito nella prima serie. E cioé, gli accenni a Sandbrook, il caso che Hardy non è riuscito a risolvere, quello che gli ha rovinato la vita, la salute, il matrimonio e la carriera.
Nel primo episodio di questa seconda stagione, si scopre infatti che Hardy sta conducendo - da sempre! - una indagine in solitaria e proteggendo quella che lui pensa essere una testimone-chiave: Claire (l'ex-Doctor Who e Torchwood Eve Myles), la moglie di Lee Ashworth (James D'Arcy, il Sixsmith di Cloud Atlas) principale sospettato per gli omicidi della diciannovenne Lisa Newberry e della cuginetta Pippa Gillespie.
Il nascondere Claire è, in realtà, la ragione per la quale lui ha accettato il trasferimento a Broadchurch, soffiando, di fatto, la promozione ad Ellie.
Rincontratisi in occasione del processo, Ellie ed Hardy finiscono - a causa delle precarie condizioni di salute di quest'ultimo - a collaborare nell'indagine su Sandbrook.
Diciamo che, per quanto riguarda la riuscita, forse questa seconda serie risulta un pochino più dispersiva rispetto alla prima. È un'ottima cosa che Chibnall sia riuscito ad evitare la trappola della minestra riscaldata - soprattutto grazie alle new entries relative alla parte processuale sulle quali svetta una Charlotte Rampling immensa nelle vesti della pubblica accusa - e che abbia resistito alla tentazione di scavare alla ricerca di altri segreti dei personaggi (e quanti ne devono avere, poveracci?), concentrandosi invece su un altro crimine e i suoi protagonisti - Claire, Lee e la famiglia Gillespie.
D'altra parte, avendo due direzioni da seguire, ho un po' la sensazione che sei episodi siano pochi e, visto che, se non ho capito male, quello di stasera è l'ultimo, mi domando come farà a concludere tutto senza comprimere troppo. Ha messo molta carne al fuoco, seminato, nel corso degli episodi, dubbi sulla colpevolezza di Ashworth con grande maestria - e James D'Arcy è bravissimo a regalarci un colpevole designato che proprio non si riesce ad odiare - quindi... come farà in modo di quadrare il cerchio?
Non vedo l'ora di scoprirlo!